La Famiglia Scultura Vivente del Mistero di Dio- 3ª parte


(Relazione dettata da Sebastiano Fascetta nel corso della “Giornata interdiocesana delle Famiglie” del RnS – organizzata dalle diocesi di Catania e Acireale, 6 maggio 2018)

3ª parte

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Antropologia della tenerezza

Per sviluppare una mistica del quotidiano e offrire spunti di riflessione concreti, desidero, a conclusione di questa riflessione, far riferimento agli organi fondamentali dei nostri cinque sensi: gli occhi, la bocca, le orecchie, le mani e l’olfatto, vere e proprie finestre che ci aprono ed educano alla relazione. Questo breve percorso trae ispirazione dalle parole di Papa Francesco contenute nella citata Amoris Laetitia.

 

1. Lo sguardo: «fissatolo lo amò» (Mc 10,21)

L’amore si coltiva e costruisce attraverso lo sguardo, la  contemplazione dell’altro. Uno sguardo amante e non giudicante; discreto ed attento, che non mette a disagio, ma sa mettere a proprio agio. Papa Francesco esorta gli sposi ad assumere uno sguardo contemplativo:

«Molte ferite e crisi hanno la loro origine nel momento in cui smettiamo di contemplarci» (AL, n. 128).

Si tratta di guardare e di amare l’altro «come un fine in » (AL, n. 128) e non come un oggetto da consumare o possedere. La moglie, il marito, soprattutto con l’avanzare degli anni, non vale per quello che fa, ma per ciò che è. La stima, l’apprezzamento reciproco da parte dei coniugi, passa attraverso lo sguardo:

«l’amore apre gli occhi e permette di vedere, al di là di tutto, quanto vale un essere umano» (AL, n. 128).

Bisogna evitare uno sguardo vanitoso o invidioso, per lasciar emergere uno sguardo gioioso che gode della gioia dell’altro, che coltiva la gioia dell’altro, agisce per la gioia dell’altro. Sguardo discreto e accogliente come quello di Gesù, sempre pronto ad esaltare la dignità di ciascuno. (cf. Mc 10,21). L’episodio dell’incontro di Gesù con la donna peccatrice nella casa di un fariseo, narrato dall’evangelista Luca, è tutto incentrato sul modo di vedere. Gesù guarda la donna con compassione, il fariseo con rigidezza, giudicando.

Al centro del brano vi è la domanda che Gesù rivolge al fariseo , invitandolo a una conversione dello sguardo “Vedi questa donna?” (Lc 8,44). Il fariseo non riesce a vedere altro che una peccatrice, mentre Gesù vede soltanto una donna da amare, salvare, liberare, accogliere. Anche all’interno della vita matrimoniale abbiamo occhi, ma non vediamo. Tutti presi e condizionati dai nostri pregiudizi, aspettative, desideri, non riusciamo a cogliere la bellezza inedita che si sprigiona dalla vita di nostra moglie o di nostro marito. Dobbiamo chiedere allo Spirito Santo il “collirio” dell’amore (cf. Ap 3,18), per vedere in maniera nuova, vera, discreta, umile, accogliente.

È necessario anche il pudore dello sguardo contro ogni perniciosa curiosità. Il desiderio nasce dallo sguardo “vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza” (Gen 3,6; cf. 1Gv 2,15). Un occhio semplice sviluppa un desiderio sincero, un occhio perverso un desiderio malato. L’occhio è il confine di passaggio tra l’interiorità e il mondo esteriore; finestra dove entra il mondo e illumina o devasta l’interiorità. Nella società dell’immagini, dell’apparenza, del luccichio convulsivo di televisori sempre accesi, di cellulari e ipadsempre connessi, non è facile educarsi a uno sguardo altro, critico, che sa porre dei limiti.

 

2. La bocca: «Mi baci con i baci della sua bocca» (Ctc 1,1)

L’amore passa attraverso la parola:

«L’amore di Dio si esprime attraverso le parole vive e concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale» (AL,n. 321).

Parlare non è un fatto meramente sonoro, di trasmissione di contenuti, ma è un modo di comunicarsi, di donarsi. “La bocca infatti esprime ciò che nel cuore sovrabbonda” (Mt 12,34).

Ogni qualvolta parliamo esprimiamo ciò che abita nel nostro cuore, esponiamo la nostra interiorità. La parola svela il cuore, rivela i sentimenti. Senza parola e ascolto non possiamo conoscerci. La parola è lo specifico dell’essere umano che lo distingue dagli animali. L’umanizzazione della relazione passa attraverso le parole, per questo è necessario imparare a parlare, vigilare sulle parole per evitare di procurare del male ai nostri cari: “Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio” (Mt 11,36). Ogni parola che disumanizza, mortifica, disprezza, colpisce con rabbia e violenza, è una parola vana.

Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano” (Ef 4,29). S. Paolo è categorico “nessuna parola cattiva”, parola malvagia, come pietra scagliata contro l’altro. «Così è anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi cose. Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta. Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male. La lingua è inserita nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,5-6). Piuttosto il parlare in famiglia deve essere «sempre gentile, sensato, in modo da saper rispondere a ciascuno come si deve»(Col 4,6).

Verifichiamo il nostro modo di parlare in famiglia. Spesso, infatti, primeggia un parlare assertivo, categorico, che impone ordini o esprime richieste, in maniera dura e risentita, piuttosto che utilizzare un linguaggio mite, rispettoso, capace di ringraziare, elogiare, esprimere tenerezza.

La parola contiene in sé un grande potere: può costruire la comunione oppure distruggerla. Saper parlare è un’arte da imparare attraverso un lavoro costante su se stessi.

Gesù sapeva parlare al punto che persino i suoi nemici rimanevano affascinati: “Risposero le guardie: mai un uomo ha parlato così”(Gv 7,47). Parlava con autorevolezza (cf. Mc 1,22) perché faceva ciò che diceva; parlava attraverso le parabole coinvolgendo i suoi ascoltatori, suscitando interrogativi, senza mai imporsi o giudicare alcuno. Impariamo da Gesù il linguaggio semplice e sincero dell’amore.

È importante per la coppia donarsi del tempo per esprimere e comunicare ciò che abita nel cuore. Cerchiamo di evitare parole di accusa che colpevolizzano. Impariamo un linguaggio nuovo, forgiato al fuoco dello Spirito Santo.

Per imparare a parlare è necessario coltivare l’interiorità:

«avere qualcosa da dire, richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società. Diversamente, le conversazioni diventano noiose e inconsistenti» (AL, n. 141).

 

3. Le orecchie: «Ascolta... amerai...» (Dt 6,4)

L’ascolto è di fondamentale importanza per vivere l’amore. Senza ascolto non c’è conoscenza, senza conoscenza non c’è amore (cf.Dt 6,4). Ascoltare è amare. Ai n. 137, 138 e 139 della Amoris Laetitia Papa Francesco  sviluppa un semplice ma denso itinerario dell’ascolto, che sintetizzo nel seguente modo. Ascoltare vuol dire:

1. darsi tempo «tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno esprimere»;

2. «assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire»;

3. spogliarsi di ogni pregiudizio «mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio»;

4. accogliere la sofferenza dell’altro/a «deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira, la sua speranza, il suo sogno»;

5. porre attenzione all’altro «riconoscere che ha il diritto di esistere, a pensare in maniera autonoma e ad essere felice»;

6. essere disposti ad imparare;

7. entrare in una relazione empatica, mettersi nei panni dell’altro/a «interpretare la profondità del suo cuore, individuare quello che lo appassiona e prendere quella passione come un punto di partenza per approfondire il dialogo»;

8. essere disposti a cambiare  prospettiva, modo di pensare, per «non rinchiudersi con ossessione su poche idee»;

9. essere flessibili «per poter modificare o completare le proprie opinioni»;

10. superare la paura dell’altro «come se fosse un concorrente»;

11. «esporre le proprie critiche senza però scaricare l’ira come forma di vendetta»;

12. «evitare un linguaggio moralizzante che cerchi soltanto di aggredire, ironizzare, incolpare, ferire».

Ascoltare è fare spazio all’altro: «l’amore possiede un’intuizione che gli permette di ascoltare senza suoni, e di vedere l’invisibile»(AL, n. 255). L’ascolto raggiunge il silenzio di cui sono intrise le parole, va oltre la forma esteriore o estetica per cogliere l’intenzione di chi parla. Quando invece ci fermiamo alla forma esteriore delle parole in sé senza fare spazio all’altro/a, è facile ferirsi, rischiando di fraintendere le motivazioni profonde che ci abitano.

 

4. Le mani: «E prendendoli tra le braccia, li benediceva imponendo le mani su di loro» (Mc 10,16)

La tenerezza passa attraverso i gesti. Amare qualcuno vuol dire far “sentire” l’amore:

«Così fiorisce la tenerezza, in grado di suscitare nell’altro la gioia di sentirsi amato. Essa si esprime in particolare nel volgersi con attenzione squisita ai limiti dell’altro, specialmente quando emergono in maniera evidente» (AL, n. 323).

Amare non è sufficiente se rimane un concetto razionale, un dato scontato, senza passione, coinvolgimento, trasporto del cuore. La tenerezza è la forma concreta dell’amore; è l’amore fatto gesto; l’amore espresso in parole poetiche.

La tenerezza è poesia in ogni gesto e parola, armonia di abbracci e baci:

«così i due sono tra loro riflessi dell’amore divino che conforta con la parola, lo sguardo, l’aiuto, la carezza, l’abbraccio» (AL, n. 321).

La tenerezza passa attraverso mani benedicenti, carezze delicate che riconosco la sacralità del corpo dell’altro. L’amore esige mani aperte e non pugni chiusi; mani invocanti aiuto, pronte ad accogliere senza possedere, a donare senza trattenere.

«Le tue mani sono la mia carezza i miei accordi quotidiani, ti amo perché le tue mani si adoperano per la giustizia.» (AL, n. 181).

Amarsi a “mani aperte” significa, per i coniugi, mostrarsi bisognosi l’uno dell’altro, nella reciproca povertà e condivisione.

 

5. L’olfatto: «inebrianti i tuoi profumi per la fragranza, aroma che si espande è il tuo nome» (Ctc 1,2)

La tenerezza passa attraverso il riconoscimento della persona amata impressa nella memoria emotiva del cuore. L’autore del Cantico dei Cantici paragona l’odore al nome, all’identità e unicità della persona. S. Paolo parla del buon profumo di Cristo, che i credenti sono chiamati a diffondere nel mondo attraverso un comportamento conforme all’esempio di Cristo (cf. 2Cor 2,14).

Ciascuno ha un proprio odore, espressione della propria personalità. Solo chi ama sa riconoscerlo.

In comunione con Cristo, come sposi nel Signore, siamo chiamati a diffondere il buon profumo dell’amore, della bellezza della comunione, dell’armonia del sentire all’unisono, ben sapendo che il matrimonio implica la consapevolezza della «necessaria combinazione di gioie e di fatiche, di tensioni e di riposo, di sofferenze e di liberazioni, di soddisfazioni e di ricerche, di fastidi e di piaceri» (AL, n. 126).

 

Conclusioni

Il cammino proposto richiede un’apertura della mente e del cuore alla poetica della vita. Non si tratta di entrare in modalità relazionali sdolcinate o centrate sull’emotività, ma di lasciar spazio alla creatività dell’amore, dei sentimenti, dello Spirito. Dove c’è lo Spirito del Signore c’è l’amore poetico, l’immaginazione del cuore.

La poesia è intuitiva, effervescente, delicata, puntuale, attraente, discreta; è il linguaggio mistico degli innamorati che vedono la realtà, i corpi, gli avvenimenti, le gioie e i dolori , con uno sguardo altro, con uno sguardo alto.

La poesia dei sentimenti si esprime attraverso le lacrime e i sorrisi. Amare è anche asciugare le lacrime di chi soffre; è sorridere con chi è nella gioia. Tutto nell’amore può diventare poesia, esperienza di bellezza nell’ordinarietà del vivere.

«Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare. Quello che viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (AL, n. 325).

Sebastiano Fascetta

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